Lo dice la mano - una storia vera.

 Il viaggio sul treno che parte da Torino Porta Nuova alle 7 e giunge a Milano Centrale alle 8 è il simbolo della precisione della mia trasformazione. In un’ora esatta la mia personalità cambia e si adatta: a Torino sono in modalità mestamente rassegnata, appena valicato il confine con la Lombardia attivo l’opzione Sopravvivenza. Milano è ottimista, ma di un ottimismo derivante dalla stessa industriale disperazione torinese, rielaborata in chiave statunitense. L’ape dopo il lavoro a Torino non te lo fai: ecco perché hai la stessa flemma in uscita di quando timbri l’entrata.

A Milano cammino veloce, rido di più, sorseggio Barolo in allegria. La città all’inizio sembra inospitale per un forestiero: a Torino sei abituato alle finte carinerie, al cioccolatino servito insieme al caffè, al buongiorno allegro di un barista che (ne sei consapevole) vorrebbe fare tutto fuorché il tuo caffè. 

Milano è più schietta e pragmatica: ti schiaffano la tazzina sul piattino e devi anche muoverti a liberare il bancone che quelli dietro picchiettano con il piede per indicare di avere degli impegni, delle vite molto più interessanti e piene della tua. Potresti avvertire un certo senso di inadeguatezza, ma a Milano sei portato a darti un tono e dissimularlo. Il Barista che ti fa il caffè è Breakfast manager e a te viene voglia di essere all’altezza.

La trasformazione che avviene in me, lo so bene, è solo di tipo formale. In poche ore il mio carattere subalpino emerge, assieme ad una rassegnazione agrodolce, poiché confortevole (e confortevole poiché conosciuta): è l’eterno ripetersi delle cose, l’allegorico uroboro del plin che imprigiona una personalità che altrimenti sarebbe imprenditoriale e spregiudicata. È il fantasma dei “No” che i nonni dal sud si sono sentiti dire quando venivano a popolare la Fiat e gli affitti erano preclusi ai meridionali, gli stessi “No” che hanno risposto ai nostri genitori e che sono stati riproposti a noi.

Ricordo un medico, cliente di mia madre, che un giorno in negozio mi chiese cosa volessi fare da grande. Risposi senza esitazione e quasi gridando per l’emozione di dirlo a qualcuno:

-L’Avvocato!

-Che lavoro fa la mamma?

-La commerciante.

-E che lavoro fa il papà?

-E’ un dirigente in Ferrovia.

-E tu che Avvocato vuoi fare?

Avevo circa nove anni, ma compresi immediatamente il senso sarcastico di quelle parole. La disillusione era il primo comandamento e quindi si accompagnava al famoso proverbio, facile da ricordare per un bambino: “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco.” Odio i gatti.

I milanesi non hanno una disillusione in cui rifugiarsi, hanno più che altro illusioni. Non conoscono le strisce pedonali, non hanno semafori e la buca di Porta Lodovica si è quasi portata via la mia caviglia, ma piegati a scribacchiare un mastrino diranno sempre e comunque e a pieni polmoni “Milano è sempre Milano!” Senza distogliere lo sguardo dall’oggetto cardine della loro attività. Te lo dico io se Milano è sempre Milano, mentre striscio sul marciapiede più vicino alla voragine del multiverso in cui sono caduta a Porta Lodovica usando i gomiti come slancio come se fossi in trincea mentre un ragazzo accorso dalla direzione opposta mi chiede se io abbia bisogno di aiuto e rispondo di no perché odio le domande ovvie, per affermare la mia identità da donna indipendente mentre una lacrima di dolore mi squaglia il mascara e per evitare che qualcuno assista al pietoso tentativo di rialzarmi che sto per attuare.

Ripenso a quanto intensamente io abbia evitato di incrociare lo sguardo delle persone accorse in mio aiuto in quella situazione e di quante parolacce io abbia detto nel tentativo di alzarmi, facendo la figura della volgare forestiera incivile: “Cazzo, che male. Sta buca di merda!”

Lato positivo: la mia figuraccia è stata talmente pubblica che mi ha permesso di constatare che a Milano la popolazione è più empatica, in quanto a Torino mi hanno camminato accanto. Sì, mi piace cadere in diverse città. La criminalità fuori controllo del Barrio ha reso la cittadinanza più coesa.

A questo punto delle mie riflessioni sono all’altezza di Novara, scruto fuori dal finestrino un orizzonte coperto da una nebbia padana che toglierebbe la voglia di vivere persino al bambino che sorride sulle confezioni Kinder e rimugino sulla lettura della mano ricevuta la settimana scorsa, in una libreria-caffetteria (a Torino non esistono e sono rimasta veramente affascinata, così tanto che non ho cercato di nascondere le molestie della mia appendice nasale attuate a discapito dei libri a portata di sniffata).

-Qui dice che hai una vita sentimentale molto intensa, li vedi i nodi? Sono tutte forti emozioni.

Ho l’ardire di chiedere quando finiranno queste forti emozioni, questi nodi:

-Ma perché vuoi che finisca? È una cosa bellissima, non lo capisci? Significa che tu ami intensamente! Preferiresti una vita sentimentale piatta?

-Assolutamente sì, guarda meglio!

Il tono della mia voce tradisce la disperazione torinese di cui sopra, ma la maga sembra non farci caso:

-Dice che avrai tre relazioni.

-Le ho già avute. Quindi la mia vita sentimentale è finita così, a venticinque anni?

Sono ad un passo dal singhiozzare, ma nulla può fermare il mio flusso piemontese decadentista: “Morirò da sola piena di gatti!” Io odio i gatti, sono come dei nemici che ti porti in casa. Graffiano, mordono, si mettono a dormire sui tuoi golf e non c’è nulla che tu possa dire che abbia le potenzialità per convincerli a fare alcunché, tipo togliersi dai tuoi golf. 

Continuo a spalancare la mano davanti alla maga, avvicinandola pericolosamente al suo naso nel tentativo di avere un’affermazione positiva:

-Ma non dice nulla su quando questo tormento finirà?

-Ma guarda che è positivo!

-Senti, la mano è mia: lo saprò io se è positivo o no!

La maga è turbata dal mio scetticismo verso le sue doti interpretative, non sa bene cosa dire ma questo non le impedisce di continuare a parlare. Intanto chiedo se le tre relazioni già avvenute simboleggino la totalità di quelle descritte dalla mia mano, la maga dice che solo quelle significative lo sono.

-Quindi solo una relazione significativa! Ne ho ancora due! Ma cosa succede al primo dei due, muore?

-Ma no, spero di no! Perché deve morire? Vuoi che muoia?

La maga ormai ha perso definitivamente le redini del mio nichilismo, il quale travolge anche lei. Si sta per trasformare in una psicologa e proprio non lo potrei sopportare.

-Ma no, no. Non voglio che muoia, mi chiedo solo che fine farà.

La maga non si scompone e mi guarda nelle palle degli occhi, racconta a raffica di come io mi innamori con la ragione anziché con il sentimento. Si sta contraddicendo: con tutti questi nodi dalle forti emozioni ho ampiamente sperimentato la totale assenza di ragione. Ritiro la mia mano, mi schermo dietro un broncio finto-piemontese, che ormai si è capito che sono un’immigrata anche in piemonte, e mi chiedo se la maga non sia anche lei Manager di qualcosa.

Certo, una scena così poteva succedere solo a…

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