Un libro ti cambia la vita.

Già, mi ha cambiato la vita. Non scrivo recensioni da più di un anno, non ho avuto ne' il tempo ne' il coraggio di farlo per una serie di motivi. Poi ho letto Novecento, di Alessandro Baricco. Ed è stata un'esperienza così unica, così indelebile da non poter essere ignorata. E' stato come rinascere: la narrativa ha l' immenso spropositato potere di risvegliare le emozioni, anche quelle sopite da un po'. 
Ricordo bene il momento del contatto con questo libro, perché credo sia stato uno di quelli che a lungo andare le persone riconoscono come cruciali: il momento in cui la mia visione della letteratura, e quindi del mondo, è cambiata insieme alla mia vita. Per più di un'ora e mezza avrei dovuto aspettare mia madre alla stazione e per fortuna qualcuno aveva deciso di piazzarci dentro una libreria: avevo bisogno di un passatempo dilettevole ed ho acquistato un libro sottile e dalla grafica economica allettante, un libro che mi avevano sempre consigliato di leggere, ma che per orgoglio culturale avevo rifiutato di acquistare nella mia sciocca cocciutaggine (nella mia testa infatti nessuno è degno di influenzare i miei gusti letterari in alcun modo). Ovviamente, consapevole del fatto che la ubris avesse portato lontano solo Ulisse, controvoglia, ho iniziato Novecento, mangiando due piccole meringhe bianche cosparse di zuccherini colorati in un bar. E' stato fuorviante. Ho dimenticato in un attimo il mio nome e la mia stessa esistenza, e sono stata travolta dalle emozioni più disparate. Mi sono divertita, ho provato curiosità e tenerezza, e alla fine una lacrimuccia mi è scappata. Non per il finale, quando leggi un libro sai che può finire male e cerchi di prendere precauzioni e non farti coinvolgere troppo. Il punto è proprio questo, non sono riuscita a mantenere le giuste distanze, il mio cinismo non è bastato e sono stata risucchiata da questa storia prima di potermene rendere conto. Ho avuto paura, una volta finito: chi mi garantisce che riuscirò ad amare di nuovo e così tanto un libro? Lo stile asciutto e jazzato, che ti soddisfa e lascia sempre a bocca asciutta, la narrazione veloce e coinvolgente che non ti da' un attimo di respiro, la meravigliosa atmosfera degli anni venti che ti entra dentro come una ventata di erba appena tagliata e che ti costringe al contempo a vivere un'esperienza al di la' dello spazio e del tempo, lontana da queste (ormai inutili) dimensioni, e che sfocia in un ricordo magnifico e limpido, pone questo libro come un faro di speranza per tutti coloro che leggendo l'hanno persa, inghiottiti malvolentieri dalle mode del presente.
Alla fine ho concluso che i libri migliori, quelli che ti cambiano la vita, sono anche quelli che te la rovinano. Leggete questo libro e pentitevi di averlo fatto: non lo dimenticherete mai, rimarrete incrostati e unti e non vorrete mai liberarvi di questa sensazione.

Sinossi:

Il Virginian era un piroscafo. Negli anni tra le due guerre faceva la spola tra Europa e America, con il suo carico di miliardari, di emigranti e di gente qualsiasi. Dicono che sul Virginian si esibisse ogni sera un pianista straordinario, dalla tecnica strabiliante, capace di suonare una musica mai sentita prima, meravigliosa. Dicono che la sua storia fosse pazzesca, che fosse nato su quella nave e che da lì non fosse mai sceso. Dicono che nessuno sapesse il perché. Questo racconto, nato come monologo teatrale, è uscito per la prima volta nel 1994. Nel 1998 Giuseppe Tornatore ne ha tratto il film La leggenda del pianista sull'oceano.



“Suonavamo perché l’oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio. E suonavamo il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede. Su cui Dio ballava, se solo era negro.”





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