Mi sono inventata un gioco su Instagram: voi mi mandate tre parole, io creo per voi dei racconti personalizzati per tenervi compagnia durante la quarantena. Ecco il quarto, per Martina.

Silvia riusciva a sentire l’arrivo di un temporale ben prima di uscire di casa o guardare il meteo: qualcosa dentro di lei diventava elettrico come l’aria calma che precede la tempesta.
Di solito, quando dal mattino diventava elettrica, Silvia si recava all’orto botanico di Torino, che nonostante avesse dimensioni discrete era di quel verde felce intenso che con un cielo grigio sopra era bello e suggestivo da vedere anche fuori stagione. Oltrepassava il cancello principale sfoderando il suo abbonamento davanti alle espressioni perplesse delle due impiegate, che si chiedevano perché qualcuno dovesse gironzolare per il piccolo sentiero osservando le piante con curiosità senza mai leggere il loro nome prima di un temporale. Una delle due impiegate alzava gli occhi al cielo ogni volta che Silvia si avvicinava al bancone ma Silvia non se ne curava. Il suo cuore custodiva avidamente un sogno segreto, quello di vivere in una casa tutta sua, un po’ silenziosa ma piena di vita, che fosse come la struttura dell’orto botanico utilizzata dagli studenti per analizzare curare e studiare le piante. Le piaceva immaginarsi ad attendere la pioggia appollaiata su un divano sotto una di quelle finestre, con un libro in una mano e del tè nell’altra. I suoi sogni riguardavano sempre piccole cose ma le dipingevano in maniera molto nitida e sentiva il profumo delle brioche scaldate al microonde, lo scoppiettio del fuoco di un camino, l’ago del rosmarino sul davanzale che le pungeva il dito. Un dettaglio non era restituito alla sua mente come avrebbe voluto: nei suoi sogni c’era qualcuno con lei ma non riusciva a visualizzarne  il volto, non riusciva ad immaginarsi la sua voce ma vedeva benissimo le sue scarpe da tennis, un po’ rovinate ma pulite, con i lacci allentati.
Si sentiva proprio strana, sentiva di avere una visione della vita e di ciò che la riguardava diversa rispetto a quella degli altri. Non correva come un treno, si godeva il paesaggio. Talvolta il suo bisogno di fermarsi per respirare la faceva sentire in difetto, come se il suo ritmo fosse sbagliato e innaturale in un mondo che corre. Qualche avvenimento l’aveva disillusa ma a volte si scopriva a sorridere come una bambina e questo accadeva in quell’orto botanico che aveva visto in ogni stagione, sempre diverso ma uguale a se stesso. La coerenza delle piante, il loro timido stare al mondo meraviglioso e necessario ma senza clamore, la rispecchiava perfettamente.
Pensava queste cose un pomeriggio di maggio mentre lo stomaco cominciava a brontolarle per la fame che non l’abbandonava mai e le impiegate dell’orto botanico, dopo essersi a lungo consultate su quale fosse lo schema di gioco più efficace, la inchiodavano ad un bivio del minuscolo sentiero quasi placcandola, l’una da un lato e l’altra da quello opposto, per poi suggerirle cautamente e in modo fintamente distratto di porre fine alla vista visto che stava piovendo.
Ci scherzava su, diceva alla gente di essere perseguitata dalla stessa nuvola sfigata di Fantozzi ma in cuor suo sapeva che la pioggia arrivava per lei, per farle compagnia. Aveva letto in qualche romanzo che la pioggia era in grado di lavare via i brutti pensieri e un po’ ci aveva creduto ma aveva anche pensato che, proprio come lei, quella pioggia fosse il riflesso del suo sentirsi d’ intralcio alla fretta degli altri. Pensava che il legame che aveva con gli elementi fosse in qualche modo mistico e dipendesse in parte dal suo nome, Silvia, che deriva dal latino e significa “colei che abita nei boschi”.
Fu proprio così, mentre si sentiva di intralcio, che Silvia fu travolta da un ragazzo che correva disperato verso la metropolitana e che, voltandosi, cominciò a scusarsi profusamente lasciandole oltre che una grande confusione per il suo parlare frettoloso, il suo biglietto da visita, per un caffè di scuse. Silvia riconobbe le sue scarpe, cominciò a tirarsi le pellicine del pollice sinistro  con le unghie e mentre i Queen le suonavano nelle orecchie The show must go on, pensò che forse quella pioggia che si sentiva di intralcio poteva riservare qualcosa di bello.

Questo racconto è per te Martina, che passeggi nel mondo con la tua unica personalità.
Carlotta Di Cretico.

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