Mi sono inventata un gioco su Instagram: voi mi mandate tre parole, io creo per voi dei racconti personalizzati per tenervi compagnia durante la quarantena. Ecco il settimo, per Sandro.

Le luci di Tokyo gli ballavano negli occhi, la capitale del Giappone era l’ennesima meta dei suoi viaggi d’affari, diversa da ogni altra città che aveva già visto. I colleghi della sede principale della sua azienda lo avevano invitato al karaoke: per tradizione i traguardi si festeggiavano così e Roberto aveva chiuso un contratto da sei milioni grazie al carisma da guaglione e alla sua conoscenza perfetta del giapponese. Dopo il karaoke cui si limitò ad assistere con un sorriso stampato in faccia senza realmente divertirsi, raggiunse con i compari l’Oriental Lounge, un pub esclusivo in cui un drink ti costa quanto una cena ma da cui vedi tutta la città. Non sapeva per quanto sarebbe rimasto, saltava da una sede all’altra dell’azienda con l’agilità di una cavalletta, travolto dalla frenesia delle sue ambizioni. Mentre guardava la città pensava che non si sarebbe mai fermato, che il suo volere sempre di più lo avrebbe portato a vagare senza meta per sempre. Con un Bourbon in mano si godeva la vista spettacolare, gli altri festeggiavano la sua vittoria e Roberto  pensava che non avrebbe mai provato la sensazione di celebrare un traguardo, semplicemente  perché i traguardi non li vedeva. Vedeva tappe di un percorso in salita, vedeva se stesso allo specchio mentre si annodava la cravatta, vedeva tutte le città, tutto il mondo, ma non gli bastava. Aveva corso più di tutti per anni, aveva sputato sangue ed era annoiato, se ne voleva andare. Akihito, che con l’intuito del vero leader si era circondato solo dei migliori conscio di non poterli controllare, si avvicinò: «Non ti basta mai, amico mio. Non restare se non vuoi, faresti cose meno grandi di quelle che potresti fare.» Al momento dei saluti  Akito lo ammonì, gli disse che prima o poi si sarebbe dovuto fermane, che questo italiano cocciuto avrebbe imparato la lezione ma che avrebbe sempre avuto un pasto alla sua tavola. Le espressioni giapponesi divertivano molto Roberto, perché con tutte quelle metafore aveva sempre l’impressione di parlare con degli anziani saggi e questo rendeva tutto più drammatico di quanto sperasse. Il suo più grande difetto era il vizio di stare per ore a pensare al futuro senza dedicare un solo istante al passato, analizzando la propria volontà con una lucidità quasi agghiacciante, poiché a muoverlo era unicamente la volontà stessa, tratto che aveva spaventato tutti quelli che avevano provato ad entrare nel suo folle mondo. I sentimenti lo coinvolgevano senza travolgerlo ma la stessa ambizione che lo spingeva a crescere sul lavoro e personalmente lo aveva trascinato lontano dagli altri, recidendo i suoi legami. Il viso sempre corrucciato gli conferiva un’aria austera e pensosa e questa non era esattamente una caratteristica vincente quando doveva relazionarsi con le donne, che sebbene lo trovassero affascinante avevano persino smesso di provare a cambiarlo e la lunga serie di relazioni finite male non faceva che confermare questa sua tendenza alla solitudine.
Nonostante questo, però, desiderava profondamente una famiglia: aveva pensato di costruirla con Lei, l’unica che lo aveva compreso, l’unica che si era rammaricato di aver perso. Anche Lei si era stancata ma lui non l’aveva lasciata andare senza lottare, ci aveva provato e non era bastato. Le aveva detto che prima o poi si sarebbe fermato, che doveva solo trovare la sua vera vocazione ma lei non gli aveva creduto, gli aveva poggiato una mano sul viso e gli aveva detto che prima o poi si sarebbero ritrovati e chissà… Roberto non era un uomo cui si poteva dire “chissà”, voleva un porto sicuro e lo voleva in quel momento ma non con chiunque. L’orgoglio ferito unito al carattere “cocciuto italiano” gli avevano impedito di comporre il suo numero anche se avrebbe voluto farlo ogni volta che gli capitava qualcosa di divertente o assurdo o quando concludeva affari così importanti.  Il pragmatismo di chi si è fatto da solo partendo da una camera in affitto a Milano nella quale l’unico elemento decorativo era una lampada con la luce fredda più fastidiosa del mondo non aveva sommerso un sentimentalismo fatalista che lo portava a pensare più volte che il destino aveva voluto così. Aveva ignorato le chiamate di Lei e si era ingoiato gli auguri di compleanno che avrebbe voluto farle alle 23.59, prima della mezzanotte, perché lui non credeva alla sfortuna ma gli sarebbe piaciuto comunque essere il primo. Era andato avanti, si era intrattenuto con qualcuna ma aveva comunque scelto di correre da solo. Un amico leale ma un pessimo compagno, Roberto si incamminò verso l’hotel più lussuoso che aveva trovato e le cui spese erano state addebitate alla società, il viso che cambiava colore insieme alle luci che rifletteva. Pensò di mettersi in proprio, abbozzò mentalmente un piano di investimento in ascensore e si annotò i contatti da rispolverare sotto la doccia.

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