Tamburi

Uno, un giorno, sceglie di riporre il proprio cuore per evitare il surriscaldamento, come si fa con i cellulari. Sceglie di fargli fare la fine di un guanto solitario, superstite da una bella gita, e lo ripone in un cassetto da cui sa che non uscirà mai, un po' perché non servirà più - tutto solo com'è - e un po' perché verrà dimenticato lì in fondo, sotto qualche sciarpa infeltrita.

Così capita che la vita scorra ma che in quello scorrere ci si senta menomati dal freddo che taglia le mani, dall'assenza di quei guanti prima tanto importanti, poi dimenticati in un cassetto. Ho scoperto di essere atipica - o, meglio, di esserlo diventata - perché non riesco più a chiudere i cassetti e lascio che ogni giorno l'assenza mi scopra impreparata e mi travolga. Non riesco ad abituarmi alle mani scoperte, non mi decido a comprare altri guanti.

Mi capita di ripensare ai due artisti che simulano una relazione sentimentale attraverso una sorta di danza, ricercando l'equilibrio su una grande piattaforma bianca e rotonda, simile ad un enorme tamburo, con sotto un perno centrale che la rende basculante, utile a creare questo gioco di equilibrio delle distanze perfette. Penso a quei due che si avvicinano e si allontanano e, mentre la neve raggiunge l'ombrello - che non riesco più a dimenticare da nessuna parte - penso di aver perso per sempre quel guanto e l'equilibrio, di essere sola a danzare su questo tamburo.

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