Racconto di quella volta in cui Mario ed io organizzammo una sfida di scrittura a due incentrata su un funerale e alla fine vinsi io.
Per il concorso (immaginario) “Nuove voci di
Bubbio”
Il parquet in rovere della veranda.
Un testo di Carlotta Di Cretico
Mio zio è un omone burbero, barbuto, taciturno. Si comporta
da marito inerme, limitandosi a consolare la sorella di mia madre che piange
affannosamente mentre racconta di come è successo agli ennesimi parenti alla
lontana. Gli uomini non sanno consolare, quando provano a farlo finiscono
sempre per tacere. Quando ero adolescente mi commuovevo durante la scena di La
verità è che non gli piaci abbastanza, in cui Ben Affleck lava i piatti di
Jennifer Aniston dopo l’infarto del padre, a differenza dei mariti delle
sorelle che guardavano la partita. Ben
Affleck e Jennifer Aniston non stavano insieme in quel momento, ma lui lasciava
la propria vita per andare a lavare i piatti della sua ex, che in effetti non
aveva occhi che per lui – era pur sempre Ben Affleck. Ora mi guardo intorno e
vedo solo uomini incapaci di consolare, nessun Ben Affleck all’orizzonte: la
vita è molto meno poetica di un film romantico, ma questo avrei dovuto saperlo.
Mi sono sempre comportata come una “tosta”, “concreta”, “realista” ma sono sempre
stata una patetica romantica, di quelle che sognavano che Ben Affleck lavasse i
piatti. Non piangevo alla scena in cui lui le chiedeva la mano, non piangevo
per la separazione. Piangevo per quel gesto di consolazione perché credo di
aver sempre saputo che quel gesto non l’avrei mai ricevuto. Ora che lei, mia
nonna, non c’è più, ed io sto lavando i piatti da sola, mi chiedo se sia mai
stata consolata da mio nonno. Mio nonno era taciturno e fattuale, un po’ come
mio zio - non sorprende che mia zia si sia scelta un marito molto simile al
padre. Forse anche mio nonno non sapeva consolare, eppure è stato sposato con
mia nonna per cinquantasei anni, fino a quando un ictus non lo ha colpito
durante la caccia. In latino ictus vuol dire colpo e mi viene da
pensare che dire “è stato colpito dal colpo” sia divertente, soprattutto perché
questa formulazione è un errore di cui nessuno si accorge.
Le mie riflessioni filologiche
vengono interrotte da mia cugina, di tre anni più piccola, che entra in cucina sospirando:
- Tua madre sta fumando un altro pacchetto. Una dietro l’altra, allucinante.
Rispondo a mia cugina che è una donna che ha appena perso la
madre, che ha il diritto di fumarsi tutte le sigarette, le pipe, i sigari che
vuole. Che, se ne ha voglia, ha il diritto di fumarsi pure i mozziconi che
trova in giro. E che non è il caso di rompere i coglioni con il suo moralismo
da studentessa di medicina, oggi.
Lascio i piatti a scolare e la cucina per raggiungere mia
madre in veranda. Ho risposto male a mia cugina, ma sono certa che avrà
l’intelligenza emotiva per capire che a volte uno risponde male perché ne ha
bisogno, e non per ferire. Ho bisogno di rispondere male a qualcuno perché sono
incazzata, perché non ho un lavoro e perché i soldi dell’ultima pubblicazione
stanno finendo. Perché non ho ancora una famiglia mia e mi chiedo se un giorno
qualche nipote mi piangerà. Perché ho paura. Mia madre guarda la pioggia,
seduta sul parquet in rovere della veranda, con una nuvola grigia attorno alla
testa poggiata contro la parete. Mentre mia zia tiene i comizi, lei si chiude
in un silenzio pesante, imperturbabile. Non ha mai pianto, almeno davanti a me.
Affronta i problemi riflettendo e non condivide mai le proprie riflessioni con
gli altri. Quando mi siedo accanto a lei e mi accendo una sigaretta, sorride
senza voltarsi. Sospira anche lei prima di parlare:
-Non avrei voluto che somigliassi a me così tanto. Avrei
voluto che somigliassi a tuo padre, che adesso è chissà dove a scrivere chissà
cosa. Il reporter premio Pulitzer che appare in tv due volte a settimana non ha
chiamato la sua ex moglie per le condoglianze. Guarda tuo zio, invece. Sta lì,
zitto, ma c’è. Tuo padre è un uomo pieno di parole, ma incapace di restare
fermo in un posto. Guarda che avere le parole è importante, che non fermarsi è
importante. Tu non devi fermarti a fumare, non devi essere come me. Quando
morirò, dovrai andare a fare un viaggio difficile e conoscere un Paese lontano.
Dovrai somigliare a tuo padre, e trovarti un cristiano che sia capace di
restare.
Le parole di mia madre sono confuse, ma nel suo sguardo bruno
e lontano scorgo il mio, mi si stringe il cuore. Guardo questa donna bellissima
e realizzata che mi ha cresciuta da sola e che non è consolata da nessuno e sento
di nuovo di avere paura, ma non riesco a dare forma a questa paura. Un uomo che
non sa consolare all’improvviso mi sembra migliore di un uomo che non c’è, e
tutto ciò è molto triste. Non riesco a dare forma neanche ai pensieri, che
restano sullo sfondo come voci registrate ma mi sfuggono dal vocabolario
conosciuto e non diventano parole. Osservo, comprendo, ma non sono qui. Sono
con l’immaginazione insieme a mio padre, in mezzo a qualche bomba, credo. Sono
con lui ma è vero che non gli somiglio per niente, che non è capace di restare,
che non ha chiamato. Chiamerà, riesco a dire. Non ci credo nemmeno io, mio
padre mi ha delusa ogni volta ed ho imparato a disilludermi presto, a non
credere alla speranza ma solo ai fatti, da buona opinionista. Attraverso la
diffidenza e la disillusione mi proteggo dal dolore potenziale rivivendo
continuamente un unico dolore che non ho superato, poi mi sciolgo davanti a un
film romantico perché c’è sempre una parte di me che spera di non essere
delusa. È strano pensare a questo, è morta la nonna e penso a Ben Affleck.
-Mamma…
-Piccola.
-La nostra famiglia era unita dalla
sua presenza. Cosa faremo senza di lei? Cosa sarà del Natale, del primo maggio,
della Pasquetta?
-Immagino che si faranno qui da me.
-Perché QUI da te?
-Ho intenzione di comprare la quota
di tua zia di questa casa. Non ho messo radici altrove, mi sembra giusto non
spostarle da qui.
-Quindi sei come una quercia. Guarda
che metafora! Le parole sai usarle bene anche tu!
-Non bene quanto tuo padre.
Altrimenti, come avrebbe fatto a fregarmi?
Lo dice con un tono risoluto e quasi
gridando, con l’accento siciliano marcato ed esclusivo di quando si arrabbia,
ma sembra un personaggio cattivo dei cartoni. Scoppiamo a ridere
simultaneamente, grugnisce e questo mi fa ridere ancora di più. Ridiamo a pieni
polmoni, siamo costrette a spegnere le sigarette perché non riusciamo a
fermarci. La risata è fragorosa e richiama la famiglia. Ci raggiunge mia
cugina, che ha appena finito di lamentarsi della mia sfuriata con lo zio:
-L’ultima volta che avete riso così è
stato quando il nonno soffriva di meteorismo e scoreggiava ogni volta che
appoggiava il piede destro.
Alle nostre risate, che diventano
inconsulte, si aggiunge la sua. Così, uno dopo l’altro, i membri della mia
famiglia si riuniscono sul parquet in rovere della veranda, raccontando
aneddoti divertenti, ridendo e piangendo, ricordando.
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